Si potrebbe votarsi alla divinità, oppure, tenendosi a debita distanza dai preconcetti e dalle pressioni, posto che sia possibile, per qualcuno, schivare i preconcetti e resistere alle pressioni, aspirare al conseguimento di qualche temporaneo e accettabile grado di consapevolezza… accettabile per noi stessi e per nessun altro, ci mancherebbe… che ci permettesse per un po’ di amare senza odiarci e di amarci senza odiare.
Si potrebbe dedicare a cuor leggero – e c’è chi lo fa – la vita intera a una singola, piccola causa, la nostra vocazione, la missione che, forse, sarà la ragione stessa dell’aver vissuto, scelta soggettivamente tra tutte, per oggettive ragioni di prossimità, dato che eravamo lì, avevamo tempo, ci andava e nessuno pareva avere voglia di farlo più di noi.
Si costruisce così, l’eternità: un singolo momento alla volta, valutando le opzioni e creando le condizioni propizie, con fiducia e passione.
Come fa certa gente a non aspettarsi che ci sia, fosse solo per rigor di logica, qualcosa di assoluto, infinito e perfetto da contrapporre, all’opposto, a ciò che è relativo, provvisorio, imperfetto?
Non è senz’altro vero ciò che dimostriamo attraverso la negazione del suo contrario, come il fatto che, se non è bianco, è nero?
Altrimenti, tutte queste risorse che avremmo, tutte queste diverse opzioni di cui si parla, se è vero che ci sono, parrebbero davvero in sovrabbondanza, rispetto a quel che serve, per dover fare nient’altro che vivere.
Troppe risorse per alcuni, certo, che hanno comunque una vita sola o, al contrario, troppe vite per risorse scarse, mal perequate, mal gestite.
Non fu sempre così, naturalmente: vi furono tempi migliori, che non durarono a lungo e, se lo scopo fu mai solo quello di vivere qualche decennio in più, anche peggiori.
Se invece stessimo realmente preparandoci a qualcosa di più perfetto e definitivo, passando da un nuovo, cruciale balzo evolutivo fino al compimento del nostro scopo, anche se si trattasse del funesto epilogo della nostra specie e a maggior ragione in quest’ultimo caso, ogni piccola speranza di aver contribuito, anche poco, anche senza volerlo, non visti e non percepiti, sarebbe oltremodo ben riposta.
Ogni vita, allora si, pur breve o solo marginalmente consapevole di sé e degli altri, sarebbe preziosa.
Non è questo un buon motivo per tendere alla divinità?
Vivere per sopravvivere potrebbe essere davvero troppo, oppure troppo poco, perché gli si dedichino la cura e l’attenzione di cui siamo capaci, se ne siamo capaci, come quando ci accorgiamo per la prima volta che basta un attimo di distrazione a farci scordare persino di mangiare, che riusciamo a perderci completamente in quello che facciamo, che so, nel dissezionare un cadavere o nel piegare un maglione, nella quotidiana routine delle nostre mille faccende o nell’attimo eterno e irripetibile del compimento del nostro estremo dovere.
È normale vedere dei limiti, in questa configurazione?
È giusto che sia così frustrante sapere che non sarà possibile che siamo proprio noi a compiere il prossimo balzo, noi che a malapena comprendiamo le basi su cui si fonda il progresso di cui godiamo, noi che permettiamo che siano altri a dire ciò che avremmo detto e a fare ciò che avremmo fatto?
Certo, sarà per la prossima vita, ma intanto?
Manca davvero il tempo, manca l’opportunità? Oppure, malati d’ignavia, non sapremmo neppure riconoscere le nostre realistiche possibilità e, sottostimando anche le competenze che vantiamo, preferiamo non rischiare, temendo di farlo a scapito di altri o del nostro stesso interesse?
C’è qualcosa di peggio di sprecare una possibilità, sapendo che l’abbiamo? Soprattutto, l’abbiamo davvero?
Facciamo conto che quella possibilità sia la sola. Facciamo conto che quella luce sia la nostra virtù, la nostra miglior qualità; se vogliamo, l’umanità che San Paolo chiamò carità. Poniamo che, invece di usarla fino in fondo, volessimo conservarla.
Ecco allora un’altra ottima ragione per votarsi aIla spiritualità: illuminati dalla benevolenza divina, potremmo procrastinare indefinitamente, per scongiurare l’eventualità del tutto teorica ma molto sentita, di stare sprecando, vivendola indegnamente, la nostra unica vita.
Un Dio che incarnasse quella volontà, che ci volesse vivi, approssimativamente consapevoli d’esserlo, come un padre che genera figli, per così dire, che senso avrebbe che volesse che la risparmiassimo?
D’altra parte, conservando il desiderio di sentirci creati per espressa volontà, ci sentiremmo più gratificati nel sapere che fu affinché potessimo sfinirci di intrattenimenti, dato che quella pare la migliore tra le opzioni disponibili?
Forse, l’enorme disagio di alcuni, particolarmente inadatti a sopportare la pressione che può esercitare, su un animo sensibile, il solo fatto di dover esistere, di imparare a farlo bene e di avere, soprattutto, l’occasione di dimostrarlo, anche se provano tutti a incoraggiarli, minimizzando il fatto che di pressione si tratti, ebbene, è davvero giustificato.
Forse, screditare le opzioni indisponibili, soprattutto quelle inverosimili e apparentemente risibili, come il fatto che qualcuno volle creare l’universo o che la terra è piatta, è tutt’altro che una buona idea.
Forse, di opzioni, non ne abbiamo nessuna e di divinità ne invochiamo solo per esorcizzare la paura della nostra possibile e fondamentale inutilità, salvo accorgerci o anche solo convincerci, strada facendo, che non era del tutto così.
Anche i più orgogliosi e i meno disposti a condiscendere, tuttavia, devono a volte ammettere che meriteremmo più indulgenza, per doverci muovere al buio, di quella che riconosciamo gli uni agli altri, nei giorni medi.
Saremo, un giorno, capaci di giudicare noi stessi in modo critico e autonomo ma, fino ad allora, esistiamo, se dovessimo spiegarlo a qualcuno, solo in quel riconoscerci.
Non siamo, anche se è bello pensarlo, poiché pensiamo o poiché dubitiamo; non siamo perché abbiamo o perché facciamo, ma solo in quanto siamo visti essere e dubitare, in quanto gli altri sanno che abbiamo e facciamo.
Siamo bravi perché utili, saggi perché ascoltati, ricchi perché invidiati.
La vita non è conoscenza ma riconoscenza.
Soli al mondo, in mancanza di utilità, di spettatori e seguaci, non avremmo, di nuovo, validi motivi per votarci alla divinità?
Irriconoscenti di tutto, nei confronti di chiunque, non troveremmo riparo nell’amore incondizionato e supremo, anche mentre voltiamo le spalle?
Certo, sarebbe buffo se alla fine fosse Dio, ammesso che ci sia, che ci ami, che ci voglia e che ci voglia felici, a trovare concrete ragioni per lasciarci, illusi e disperati, esigenti e vinti, come fanno, a volte, gli innamorati, dopo averci dato tutto, invano.
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