Utilità di Gianluca Vacchi

 

Serve, eccome. 

Il nulla cosmico che, certi fenomeni che hanno tutto, ostentano senza imbarazzo, come fosse il loro lato migliore, anche se i più non sembrano disposti a riconoscerlo, forse timorosi dell’orrida piega evolutiva che potrebbe prendere l’umanità, allo stesso modo in cui si tende a negare la valenza terapeutica e formativa delle piccole trasgressioni, dei riti di passaggio adolescenziali, nelle comunità marcatamente moraliste, è a volte utile alle masse: l’esempio è talmente poco edificante, privo di qualità o di virtù, che ognuno si sente, in cuor suo, di poterlo eguagliare e, perché no, battere, anche facendo poco, avendo meno, non potendo, al contrario di quei personaggi, esibire lussi.

È difficile invidiare, tra gli altri, Gianluca Vacchi, anche per chi avrebbe motivo, forse, di farlo, desiderando spesso, per sé, molti dei piaceri di cui egli pare disporre. Persino nei poveri, Vacchi suscita poca simpatia, nessuna ammirazione e, sovente, pena e tenerezza, risultando celebre più per sue esibite, fossero pure artefatte, tare psicologiche che per il tenore di vita, per le sue capacità e qualità o per il suo talento. 

Chiunque è sicuro, trovandosi a essere ricco come Vacchi, che saprebbe spendere i suoi soldi meglio di lui, fino a dubitare che sarebbe meglio averne davvero o che sia un vanto e non un’onta essere così ricchi ma apparire così stupidi.

Ciò, dicevo, è socialmente utile, perché permette di apprezzare, tanto da contribuire a renderla a loro cara, ogni risorsa, ogni qualità, vera o presunta, della vita dei molti individui che, privi di ricchezze materiali, vedrebbero una magra consolazione nel disprezzarle, come fa la volpe con l’uva, per dedicarsi a quelle immateriali, senza covare il dubbio che siano, pur nobili, davvero da preferirsi.

In pochi, mi pare, tributano loro meriti, per cui non guasterà se sarò io a ringraziare Vacchi e quelli come lui.

Grazie, quindi, a Gianluca Vacchi, a Elettra Lamborghini, a Ivana Trump, a Paris Hilton, a Lapo Elkann, alle Kardashian e a tutti i frutti fermentati dell’apparenza, più che dell’essenza, dell’esibizione come unica prova tangibile di essere esistiti, del superamento di Descartes e persino di Nietzsche. 

Essi vivono come noi, amano come noi, sperano e disperano, come noi, ma preferiscono consegnare all’immortalità indelebili scampoli di eterea vacuità, deiezioni di divina inutilità, invece di fuggevoli frammenti di concretezza, di durevole, fin che dura, mortale umanità.

Meritano gratitudine, per galleggiare allegramente sul mare infinito della loro mancanza di prospettiva, poiché ci permettono di cogliere la vera bellezza delle nostre qualità, quali esse siano, di goderle per quello che sono: gemme preziose e vitali di eccellenza. 

Essi sacrificano ogni momento della loro vita, anziché alla ricerca di qualcosa, di una cosa qualsiasi, alla mostra di sé, alla fiera delle proprie vanità, fornendo prova indelebile di ciò che non sanno dire o che non sanno fare, della loro diversamente competente esistenza, pur essendo innegabile che essa somigli, in molte occasioni, a quella di tutti gli altri e che, lavorandoci, si potrebbe, forse, migliorarla, mostrandoci che c’è qualcosa da salvare, da sviluppare. 

Invece, anziché promuovere una qualsiasi potenziale evoluzione, restituendo una dimensione etica al loro ruolo di esempio, accettano di non esserlo affatto, chiarendo definitivamente la differenza tra i loro sterili semi e i nostri, mai sufficientemente apprezzati, se non nel confronto coi primi, germogli di speranza nel progresso dell’umanità, cui noi dedichiamo le nostre esistenze sommerse, perché è nella nostra natura, ma che probabilmente apprezzeremmo di meno, se fossimo obbligati a confrontarci solo con le gesta più meritevoli degli uomini e delle donne che sono migliori di noi. 

Sotto la superficie di quel mare amorfo di vite atrofiche, nel profondo, noi, infine, esistiamo, più per quelle che per l’esempio virtuoso dei miti inimitabili di uomini che non saremmo in grado di capire o di seguire a lungo.

Siamo come bambini, che contestano i genitori, ma copiano i fratelli maggiori, esempi più vicini e comprensibili, in tutto, salvo quando sbagliano. Non capiamo ancora (o non capiamo più) l’eccelsa virtù, la lontana e rarefatta rettitudine degli esempi positivi, ma riconosciamo automaticamente tutti i vizi degli dèi dell’Olimpo. Osserviamo compiaciuti e divertiti la via che non potremmo comunque perseguire e che, grazie a Vacchi, non saremmo più disposti a seguire; riconosciamo i superuomini e le superdonne, che non ci sembrano, in definitiva, poi tali, da vicino e, a torto o a ragione, perseveriamo a volerci distinguere, perlomeno da loro.

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