Conoscevo un tizio che, tutte le mattine, si guardava allo specchio ma non riusciva a riconoscersi.
Soffriva.
Oggi si parlerebbe di disforia, si direbbe che la sua identità genetica non coincidesse esattamente con la percezione che aveva di sé. Ma allora, di queste cose non si parlava affatto.
Quel tizio immaginava che sarebbe stato tutto più semplice se fosse riuscito ad accettarsi, ma non si sentiva in grado di farlo.
Per anni si sentì a disagio, prigioniero in un corpo che non percepiva come suo, tanto da cominciare a nascondersi, a mascherarsi. Arrivò perfino a indossare una parrucca.
Si sentiva deriso, incompreso.
Esistevano battute ed etichette, per quelli come lui, ma non odiava gli altri: odiava sé stesso.
Non c’è nulla di male ad avere un ideale. È persino comprensibile avere un gusto personale — per quanto diventi sempre meno appropriato parlarne ad alta voce — su ciò che intendiamo per normalità. Purché non si glorifichi il discutibile merito di chi la incarna, magari per un istante appena, sacrificando, al suo altare, l’altrettanto opinabile demerito di chi se ne discosta.
Quel tizio non si dava pace, perché dentro non si sentiva anormale.
Semplicemente, educato a non piacersi, si sentiva sbagliato.
Così, dopo una vita passata a sperare di poter correggere quell’errore, qualche mese fa, aiutato dalla tecnologia che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante, si è sottoposto a un intervento chirurgico. In Turchia.
Era calvo.
Che c’è?
L’alopecia androgenetica non è certo tra i problemi fisici più citati in relazione alla disforia, forse perché è un’esperienza comune a molte persone, ma può generarla.
La genera sicuramente, anche se pochi — tra chi ha una folta chioma, e forse anche tra chi non ce l’ha — crederebbero che una persona sana di mente possa davvero non riuscire a conviverci.
Io, del resto, non so nulla di anoressia; tantomeno di transgenia.
Eppure, se penso ad alcuni uomini famosi, capi di Stato, geni dell’arte e della musica, star del cinema — persone che avrebbero fondati motivi per essere fieri di sé, senza vergognarsi minimamente di essere calvi — ebbene, mi sorprendo di come molti preferiscano indossare una parrucca.
Sembra inspiegabile: quanto ci si deve sentire fragili e senza speranza per rifugiarsi in soluzioni che, nella maggior parte dei casi, non riducono affatto il disprezzo di chi guarda?
Chi non sorride, quando capisce che un passante, un vicino o un collega indossa un parrucchino, compiaciuto d’aver svelato l’inganno?
Certo, non tutti pensano che la calvizie sia un problema.
Ma qualcuno — magari non molti — crede davvero che i pelati facciano ridere, che siano brutti, meno credibili, meno idonei a diventare testimonial o persino presidenti.
Quelli, se mai dovessero perdere i capelli, accetterebbero di credere anche alle favole pur di recuperarli.
È lo stesso meccanismo che induce pensare alcuni, magari non particolarmente dotati di immaginazione, che le donne con poco seno sarebbero meno belle, meno femminili, meno adatte a essere madri rispetto ad altre.
E allora, nel momento in cui tocca a loro avere poco seno, l’aggiunta di una protesi non appare più un’inganno, una forzatura, ma una cura.
Forse perché — condividendo con la maggioranza l’idea che un uomo coi capelli di Sansone o una donna col seno di Giunone sia più bello — arrivano a sostenere che esista davvero una misura ideale.
Del resto, avere certe caratteristiche fisiche, oggi, non è ancora un reato. E nemmeno avere preferenze al riguardo, ma esprimere una preferenza, anche in buona fede, può alimentare tendenze che un tempo sfociavano in ben altre degenerazioni.
La linea di separazione tra un gusto personale e il culto dell’arianesimo non è, forse, così invalicabile come ci piace credere.
Ecco perché non incoraggiare a cuor leggero certe tendenze, anche quando sembrano innocue, potrebbe essere importante.
Di certo, c’è chi apprezza un uomo tinto più di uno con i capelli bianchi, chi preferisce il riporto alla pelata, la protesi alla taglia piccola, le labbra finte a quelle vere, ma sottili.
Le pelli tirate, i nasi rifatti, gli zigomi gonfi sembrano da alcuni ritenuti più “presentabili” delle rughe.
Così come si può pensare che sia necessario abbronzarsi anche in inverno, depilarsi in ogni punto del corpo, tatuarsi le sopracciglia, sbiancare l’ano.
Eppure — e lo dico sottovoce — dovremmo diffidare delle soluzioni che ci vengono proposte per curare mali che non pensavamo nemmeno di avere.
O per nascondere ciò che, volenti o nolenti, siamo.
Soprattutto quando non sappiamo ancora bene cosa siamo.
C’è sempre il rischio che, domani, potremmo arrivare a credere che non eravamo affatto sbagliati.
Un mondo perfetto dovrebbe proteggerci per tutto il tempo che serve a scoprirlo.
Dovrebbe lasciarci il tempo di capire che siamo quello che siamo, che forse, anche se in molti non ci invidierebbero, non siamo poi così male, e che siamo proprio noi a dover trovare il coraggio di affermarlo.
A volte non siamo abbastanza forti nemmeno per piacerci.
Figuriamoci per imporre agli altri il nostro modo di essere.
Temiamo che, vedendoci, non ci riconoscano. E allora preferiamo confonderli, disorientarli.
Ecco perché indossiamo la maschera con cui vorremmo essere scambiati:
perché ci è più facile mentire — anche a noi stessi — che convincere il prossimo.
Dovremmo dare più fiducia alla possibilità che, la dotazione che la natura ci ha messo a disposizione, sia adatta alla felicità che sentiamo di meritare.
Perché rinnegandola, forse, compromettiamo anche quella felicità.
Se solo sapessimo da subito ciò che siamo destinati a diventare, ci apparirebbe più chiaro che non è il corpo, il vero ostacolo.
Amarsi non significa accettarsi, ma costruirsi.
Significa percorrere con orgoglio la strada che conduce al perfezionamento di ciò che potremmo realizzare.
Allora, forse, ameremmo quell’unicità che ora temiamo.
La ameremmo come l’unica possibilità che abbiamo — perché lo è — di disegnare l’orizzonte di domani a nostra immagine.
Così come i nostri modelli, un tempo, disegnavano quello di ieri.
Spetta un poco anche a noi, costruire quel futuro.
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