Chi non sa distinguere tra gioia e dolore, si sorprenderà, soffrendo, di godere e, godendo, di soffrire.
Ora, non vorrei essere proprio io, che odio le sorprese ma che, pure, ne ebbi in discreto numero, a dover sostenere che sia semplice tracciare una linea, pure sottile, mobile e interscambiabile, a seconda del caso e dell’umore, tra sofferenza e godimento, ma è forse il caso che qualcuno — anche io, alla bisogna — ne evidenzi l’utilità.
Capita infatti, anche se non so a quanti di noi, di riconoscere la meschinità degli altri prima della nostra, più o meno come un genitore riconosce i capricci e le reali esigenze dei figli degli altri, dichiarandosi pronto da subito, nel caso capitasse ai suoi, a rifiutare di cedere ai primi e gettarsi nel fuoco per le ultime, ma restando comunque incapace di riconoscere esattamente il confine che li distingue. Da genitore, so fin troppo bene che, quando si tratti di educare i propri figli, ci si riduce a concedere o negare solo in virtù della possibilità di assecondarli o meno, rifiutando per stanchezza e, per stanchezza, acconsentendo.
Allo stesso modo, chi, parlando dei dolori altrui, insistesse sui dettagli, con morbosità tutt’altro che proporzionale alla vicinanza — perché potrebbe trattarsi di dolori occorsi a persone lontane e sconosciute — o alla competenza, che comunque non è mai sufficiente ai profani per esprimere un giudizio, finirebbe col chiarire fin troppo bene che ne gode, per una serie di sentimenti puerili, a metà tra l’autocommiserazione e il sadismo, tra l’empatia e la più fervida fantasia, tanto che potremmo arrivare a credere che costui, nel riferire della sofferenza, si béi del fatto che non sia la sua e che, se lo fosse, probabilmente non ne sapremmo nulla. Anzi, per analogia, quando costui ci parlasse dei piaceri, suoi o altrui, avrebbe lo stesso atteggiamento speculare, mostrando la sua infantile invidia per le gioie degli altri e un compiacimento sproporzionato — tra la vanteria e la ricerca dell’approvazione — per le proprie, cosa che non riconoscerebbe mai, anche se gliela facessimo notare, ma che noi, trattandosi dei suoi difetti e non dei nostri, vediamo benissimo.
La nostra arguzia è preziosa, ma, se non è corredata di umiltà, di autocritica e di rispetto per gli altri, potrebbe indurci a non percepire che anche noi funzioniamo allo stesso modo. Certo, con minor infantilismo — poiché ci parrebbero, le nostre motivazioni e le nostre attenuanti, sempre più valide di quelle degli altri — nonché a credere che noi, da quella ricerca di consenso, dal sadismo e dall’autocommiserazione, saremmo immuni.
Potremmo quindi resistere a fatica all’irrefrenabile istinto di affermare la nostra superiorità, dato che ci pare così lampante.
La saggezza di chi tace ci dovrebbe balzare agli occhi sempre, mentre la misera figura che facciamo nel parlar troppo — anche di ciò che ci parrebbe degno di condivisione — ci assimila alla meschinità che rileviamo negli altri. Ciò evidenzierebbe solo debolmente la mancanza altrui, ma qualificherebbe chiaramente la nostra, perché l’eccessiva sensibilità, totalmente umana, che ci smuove sentimenti pure contrastanti al verificarsi di tragedie o eventi felici, verrebbe da molti valutata meno grave, essendo non completamente consapevole, preterintenzionale, direi, rispetto alla mancanza di educazione e di rispetto e alla troppa superbia che mostreremmo, apostrofando il colpevole.
Ecco che la bravura nel riconoscere la meschinità, e la saggezza nell’ammettere che essa non è prerogativa altrui ma anche nostra, ci rende invece degni e meritevoli, anche e soprattutto se esercitiamo il nostro talento lontano dallo sguardo altrui.
Il male non è più la nostra debolezza, la nostra mancanza di gusto, di sensibilità o attenzione e, d’altro canto, non lo è la nostra assenza di sensibilità, la nostra freddezza, lo scetticismo, la prudenza. Il male non sono i nostri difetti o i nostri eccessi, ma, badate bene, la posizione che scegliamo per la linea che li separa, la diversa gradazione dello stesso colore, l’intensità dello stesso sapore.
I pregi, come gli ingredienti di una ricetta o i colori in una tavolozza, non sono tali perché presenti, ma perché ben dosati.
Allo stesso modo, non è saggio negare il diritto di esistere a un contraltare, a un’opposizione. Non è l’assenza di difetti a comporre la perfezione, ma l’ovvio connubio tra loro, il frequente compendio, l’obbligatorio confronto.
Ad esempio, tutti sanno che non è saggio essere coraggiosi per assenza di paura. La paura è consapevolezza del rischio, è responsabilità per le conseguenze. La paura è intelligente, come il coraggio di affrontare le avversità. Chi si faccia sopraffare dal coraggio, correndo pericoli sconosciuti per mancanza di consapevolezza dei rischi, non è migliore di chi si lasci sopraffare dalla paura, sottostimando le proprie forze. Difetto ed eccesso, di coraggio e di paura, sono entrambi difetti, mentre l’equilibrio tra essi sarà chiaramente un pregio per chi li avesse entrambi.
Questo vale per ognuna di quelle che siamo abituati a considerare doti. Vale, naturalmente, anche per ognuno dei difetti. Ognuno di noi, anzi, elencando i propri pregi e i propri difetti, potrebbe richiamare le stesse voci, rilevando dosi eccessive o carenze tra i difetti e dosi equilibrate tra i pregi.
Ancora una volta, come per chi amministra un patrimonio, non dipende dalla quantità. Non dipende, per certi versi, neppure dalla qualità, perché chi ha raffinatezza e buon gusto, comunemente riconosciute come pregi, ma deve misurarsi quotidianamente con la mungitura delle vacche o col nemico in battaglia, avrà ben poche occasioni di emergere per le proprie doti.
L’equilibrio, la linea che distingue tra fuori e dentro, tra sopra e sotto, tra contro e pro, è più importante. Ecco perché immaginare una linea, per ognuna delle diverse colorazioni del nostro spettro ideale, a seconda del senso, del gusto e della preferenza chiamati in causa, ci identifica come individui e disegna la fantasia della nostra particolare personalità.
La linea serve a noi, naturalmente, mentre sembrerà sempre mal tarata agli altri, come parranno assimilabili a patologie le nostre esigenze di splatter, il nostro desiderio di approfondire ogni dettaglio truculento che segua l’insediamento sottocutaneo di un parassita, o della puntura di un insetto, o del morso di un animale.
Additeranno le gravi perversioni del collezionista di immagini di piedi, di reggiseni, di calzini spaiati.
Gli altri capiranno poco e male della paura dei ladri, del buio, dei ragni, delle cimici. Rideranno della presunzione di sicurezza, dell’ansia da prestazione, dello stress da medaglia d’oro; dubiteranno della creduloneria, dei gatti neri, degli oroscopi, dei riti propiziatori, dei tic, della sudditanza verso le celebrità, del servilismo verso i potenti, della compiacenza del comando.
Verremo tutti, almeno una volta nella vita — anche i divi di Hollywood e i fotomodelli — considerati meno belli di quanto vorremmo, meno profondi, meno capaci, meno affidabili di quanto spereremmo di essere, in una misura per noi sufficiente a definirla qualità, mentre nella personale ma altrui graduatoria, la stessa misura sarà insufficiente o eccedente il necessario, tanto da apparire comunque un dispregio.
Tutto ciò è inevitabile. Nessuna graduatoria stabilita per terzi è durevole… non lo sono neppure le priorità per noi stessi, del resto.
Cerchiamo di comprendere bene questa dinamica sociale.
Cerchiamo di non scordarcene mai, di praticarne l’approfondimento in qualsiasi fase della vita, sia che siamo, in qualche modo, interessati a piacere al prossimo, sia — ammetto che lì è più difficile — quando ci sentiamo in grado di fare a meno del suo parere e ci sentiamo tuttavia abbastanza autorevoli da non dispensarlo dal nostro.
In quei casi, poiché non c’è maestro senza allievo, se l’allievo non ci ascolta o sceglie di fare altro, non rinunciamo a essere distaccati, accettando di buon grado che il nostro contributo non sia apprezzato, perché ciò sarà, a un certo punto della nostra vita, quando meno l’immagineremmo, l’elemento distintivo tra l’individuo tollerante e rispettabile che vogliamo essere e l’inqualificabile rompicoglioni, seduto sul lettino di fianco al nostro, in spiaggia, che pretende di impartire lezioni di bon ton in merito alla titolarità e al godimento dell’ombra proiettata dal suo ombrellone e, mentre lo fa, fuma, pronto a sostenere qualsiasi diverbio perché, tanto, siamo all’aperto e si può.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.