Un mondo che si aspetta che io mi riconosca in uno spettro di 6 tonalità e scelga di conseguenza con quale di quelle colorare il pollice che esprimerà il mio like, mi pare davvero distante dal potersi definire un mondo inclusivo, sempre ammesso che vada a qualcuno più che a me di valutarlo migliore o peggiore perché più o meno inclusivo e che la parola ‘inclusivo’ per quanto evocativa, risulti a qualcuno meno indigesta che a me.
Mi sorprendo a dovermi io stesso attribuire un valore numerico tra 6 disponibili, cercando di capire se il mio ‘tipo’ sia sufficientemente medio da potersi sintetizzare in una tonalità di colore media.
Intanto, di sei opzioni, la media non corrisponde a un intero e l’approssimazione sarebbe o troppo gialla o troppo nera, mentre io non mi vedo né giallo né nero.
Ragiono allora sul fatto che neanche gli asiatici siano gialli, ma rappresentino oggi come oggi la maggioranza numerica assoluta, così sono tentato di allinearmi a essa, come ci si confonde col gruppo più numeroso, in democrazia, per amore d’appartenenza, pur conservando l’ambizione di distinguermi, possibilmente in meglio, salvo sentirmi orrendamente razzista mentre preferisco il giallo al rosa, dato che, il primo, posso, più correttamente del secondo, riferirlo allo stereotipo del ‘tipo’ asiatico, secondo una tradizione, anch’essa orrendamente razzista, in voga in Europa, per molti secoli.
Sarebbe del resto più corretto forzarmi a scegliere il più rosa dei colori disponibili, quando mi sentirei davvero stereotipato se qualcuno mi percepisse in qualche modo sovrapponibile all’aspetto che, degli europei, chi europeo non è, comunemente immagina?
Mi troverei catapultato in inverosimili valutazioni sulla effettiva promiscuità delle mie origini, che in larga misura ignoro profondamente, ben sapendo che le contaminazioni etniche, in una parte di mondo da cui i miei avi non s’allontanarono mai troppo, negli ultimi duemila anni, furono molteplici. Del resto, posto che in altri casi lo sarebbe, la distanza tra longobardi e franchi, goti e latini arabi ed etruschi, per chi s’intenda di etnie, non mi parrebbe rappresentare un epocale progresso verso la creazione di un ibrido degno di considerazione.
Ragiono, anche se ho idee piuttosto confuse, al riguardo, sul fatto che la mano gialla o quella nera, mentre alza il pollice, non sembrino né maschili né femminili, mentre mi pare che dovrebbero, dato che persiste una distinzione per i colori, oppure non dovrebbero esistere né per il colore né per il sesso.
Il fatto che a qualcuno possa importare di chiarire se il mio like sia espresso in quanto sono bianco o di colore, ma non in quanto sono maschio o femmina, mi pare razzista e sessista allo stesso tempo, ma forse sono io ad esserlo, dato che non percepisco, quando qualcuno pare farlo, perché una delle due distinzioni meriterebbe la mia attenzione.

Mi pare questa, in tempo di pace, con tutte le considerazioni del caso sulla innegabile fragilità, anche solo del concetto, di tempo di pace, una questione fuorviante e tragicamente incoerente.
Eppure, la guerra, femminicidio a parte – e si potrebbe, con un po’ di fantasia, ritenere, il femminicidio, esso stesso un tipo di guerra, alla conta delle vittime, se sopportiamo il fastidio, simile a quello provato per la parola ‘inclusivo’ causato dalla parola ‘femminicidio’ – ebbene, la guerra s’è combattuta con crudeltà, anche presso chi aveva meno interesse a vincerla, tra uomini convinti di avere tonalità di carnagione anche leggerissimamente diversa dal nemico.
Questo è, anche ammettendo che non ci sia nulla di scientifico nel ritenerlo per forza una conseguenza, una causa o che sia anche solo lontanamente ricollegabile alla scelta delle manine per tracciare il like, un fatto.

Quindi, che fare?

Si potrebbe, per puro esempio, coltivare l’idea che ogni tipo di invito a schierarsi, esplicito o no, quando ciò non implichi che potrebbe essere necessario morire, come si è pure disposti a fare, in casi estremi, ad esempio quando si dovesse difendere sé stessi e i propri cari, debba essere evitata. È complicato, perché i più sono probabilmente certi che qualunque questione, razziale, sessuale, morale o di mero principio, potrebbe diventare degno del sacrificio della vita, anche se non è sempre chiaro di chi debba essere, quel sacrificio. Soprattutto se il rischio non è poi così concreto.

Sarebbe diverso se ognuno fosse costretto, una volta, almeno, a sperimentare sulla sua pelle quanto si possa essere disposti a sopportare per restare vivi.

Quando non abbiamo sperimentato la disperazione, crediamo che non esista nessuna oggettività nella valutazione di quello che offende la nostra sensibilità, che ci pare una inaccettabile imposizione anche mentre riconosciamo i parametri di una regola generale, la fissazione di una qualsiasi strategia comune che implichi che è giusto o sbagliato che sopportiamo ciò che ci offenda ma che, in media, non dovrebbe farlo.

Anziché coltivare la sensibilità alla differenza, sia pure per tendere alla sua difesa, acuendo la percezione della iniquità eventuale, anche quando evidentemente improbabile, meglio sarebbe che fossimo educati alla convivenza, magari apatici, ciechi e sordi o che fossimo, al contrario, pronti a partire per territori meno densamente popolosi, opzione che resta ancora, sorprendentemente, tra le più consigliabili.

Detto questo, m’accingo a scegliere, anche questa volta, come ogni volta che l’opzione mi venne sottoposta, un colore che non è il mio, inevitabilmente, dato che nessuno dei sei lo è davvero, ma tra i meno verosimili, del tutto deliberatamente, preferendo di gran lunga la certezza di non essere per nulla nero, per nulla giallo, per nulla rosa, ma del tutto indifferente di essere, un poco, tutti loro, piuttosto che il clamoroso dubbio di essere, pur certamente riconoscibile da tutti come bianco, di colore o meno, definitivamente uno o l’altro e, senza alternative, poiché di parte si tratterebbe, dalla parte sbagliata.

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