La parolaccia è un vizio, niente di più.
Una volta che si entra nel circuito di idee per cui “quando ce vo’, ce vo’”, ogni occasione, per scadere nel turpiloquio, anche becero, sarà quella giusta.
Non sono sempre stato sensibile come ora, al riguardo. Per lunghi periodi della mia vita mi sono fatto contagiare dal vizio di un linguaggio poco accademico per banali ragioni di appartenenza, da ragazzo, ma anche più avanti, per la ormai consolidata usanza, in certi ambienti, di prendersi e concedere confidenza accettando di essere apostrofati con nomignoli ignobili, con l’unica clausola della reciprocità.
In linea di massima è ancora così: entrando in un locale, se un amico ci corresse incontro gridando: ” Figlio di puttana!”, potrebbe anche farci insorgere un dubbio: vorrà assestarci un destro o abbracciarci con affetto?
La frase potrebbe infatti avere almeno due significati: nel primo dei due, varrebbe il senso letterale; quindi, sarebbe meglio prepararsi alla lotta; nel secondo, “figlio di puttana” potrebbe richiedere una decodifica alternativa e addirittura tradursi “amico mio, è un secolo che non ti vedo, fatti abbracciare”.
Ancora, se una ragazza confessasse a un’amica: “Ieri sera, per il mio primo appuntamento con Luca, abbiamo fatto l’amore” e l’amica, con un bel sorriso, commentasse: “che trooia!!”, la prima non si offenderebbe per nulla perché, il significato recondito del seppur inequivocabile vocabolo utilizzato, non è la mera condanna, anzi, si potrebbe tranquillamente parafrasare con “tesoro, sono così felice/orgogliosa per/di te!”
Se in ufficio ti avvicinassi al collega e lo ammonissi con le parole “ti ho beccato che non fai un cazzo!”, lui potrebbe rispondere sorridendo:” ma vaffanculo”, oppure alzare un dito medio. Questo vale anche coi superiori, anche se l’ironia dovrebbe in quel caso essere più intellegibile, per evitare ritorsioni, ma se ci limitiamo ad osservare l’eventuale risposta a una domanda come: “Ragazzi, chi si può fermare stasera dopo l’orario?”, qualcuno che risponda “stocazzo”, “fottiti” o col semplice gesto dell’ombrello, lo si troverebbe senza problemi.
Siamo assuefatti, lo sappiamo da molto tempo e, dai più, non è considerato un problema, se non nell’educazione infantile, anche se, probabilmente per la mia maggiore sensibilità in merito, mi pare che l’evoluzione non ci stia portando all’eliminazione delle parolacce, in modo che i nostri figli non debbano usarne più ma, sorprendentemente e convintamente, al loro sdoganamento, anche e diversamente da quanto si faceva in televisione, fino a non molti anni fa, allargando le maglie della censura, passata dal giocare un ruolo di garante del progresso del linguaggio a guardiana della comune idea di moralità, metabolizzando il fatto che sempre meno persone si offendono, se in TV si dice “cazzo” o “vaffanculo”, ma in molti si indignano se passano messaggi omofobi, sessisti o razzisti.
La parolaccia, in fondo, non è che il modo in cui affermiamo i nostri sentimenti, positivi o negativi, se non pensiamo che sia giusto frenare l’enfasi, comunicando nel modo più spontaneo, il nostro disprezzo o la nostra amicizia. Per la verità, nel primo caso, il nostro pensiero viene ancora abbastanza comunemente celato, per evitare troppo vistose e indesiderate reazioni, ma, nel secondo caso, dato che siamo in grande confidenza, possiamo scambiarci anche battute pesanti (e in certi casi sono pesanti davvero), senza offenderci e continuando a volerci bene.
In molti casi è così davvero, anzi, ci immedesimiamo talmente nel personaggio, che non riusciamo a smettere e, ancora peggio, quando incappiamo in qualcuno che non impreca, non si scalda, non si espone, non lo riconosciamo come uno di noi.
Lo facciamo anche in altri casi, nel corso della vita; ad esempio, nell’atteggiamento verso l’alcol, le droghe… i vizi, in generale. “Se uno non beve in compagnia”, ad esempio, “è un ladro o una spia”.
La vita può essere, a volte, un susseguirsi di iniziazioni sociali simili a riti tribali, in cui ci sottoponiamo, più o meno volontariamente, a violenze, abusi, torture e contaminazioni, come i patti di sangue, il bullismo tanto vituperato ma che, per molti di noi, è stata una seconda mamma e una baby-sitter.
Persino i baci tra mafiosi e le strette di mano indesiderate, con mano molle e acquosa, sono iniziazioni.
Ogni ambiente ha regole, talvolta scritte, talvolta no, perché sarebbe illegale, che ti costringerebbero a fare qualcosa che non faresti per essere accettato, per essere considerato un socio del club, un membro della confraternita, un vero uomo, un amico.
Con il linguaggio è lo stesso; si parte dall’inflessione dialettale perché, uno che non parli come noi, come può essere uno di noi?
Seguono il gergo, la capacità di farsi capire rapidamente, con parole d’effetto, frasi fatte, motti, tormentoni… ecco che le parolacce diventano utili, sottolineando i punti caldi del discorso ed enfatizzando il concetto, come una nostrana, casereccia e riconoscibile salatura dei nostri sempre troppo insipidi argomenti.
Ricordate come vi divertivate da bambini, con certe barzellette stupide, non appena arrivava la parolaccia? E gli scioglilingua che ti costringevano a dirne? Che risate!
La parolaccia qualifica la cultura, l’intelligenza, l’area geografica, il ceto sociale, ma con una trasversalità che tocca tutti i continenti, ormai, e tutte le generazioni.
Nascono espressioni gergali tipiche, con i frasari utilizzati per sentirsi giovani, o fighi, o “del mestiere”, che tuttavia spesso riciclano espressioni desuete o coniano neologismi pretenziosi, acronimi, abbreviazioni, inglesismi di dubbia, maggiore efficacia rispetto alla lingua ufficiale e, naturalmente, parolacce sempre nuove, con una ciclicità prevedibile, tanto da rivelare a chi viva abbastanza a lungo, il loro limite, la loro ordinarietà e, d’altra parte, come già notava Victor Hugo, due secoli fa, la sua stretta connessione con il carattere del popolo.
Da genitore, con tutti i dubbi del caso, se si tratti, o no, di una strategia sensata, di questi tempi, sono diventato più intransigente con me stesso e meno tollerante verso chi non sa diversificare il frasario in ragione degli interlocutori e degli ambienti, mentre molte persone vivono il turpiloquio come un modo di esprimersi in scioltezza, con maggior spontaneità e onestà intellettuale.
Non posso negare come mi sembrino puerili falsità.
Sarei anche pronto ad ammettere che chi parli senza usare parolacce non è immune da ipocrisia e indenne alle gaffes, ok, ma con questo?
Sono sfegatato fan di quelle persone che sono in grado di sfornare sinonimi alle parolacce e spiegare efficacemente un’idea, aggirando l’ostacolo di una colorita espressione, che tutti conoscono, senza usarla.
Ci sono genitori meno bigotti di me, mi rendo conto, ma se devo pensare a un approccio che vorrei fosse quello dei miei figli, se sarò in grado, vorrei inculcare loro la capacità di scegliere il linguaggio da usarsi a seconda del caso come si fa con le lingue straniere. Infondo tutti, giovani compresi, considerano rispettoso parlare in corretto francese a un francese e in corretto russo a un russo.
Perché qualcuno dovrebbe pensare che io gradisca essere chiamato “bro”, “fra” o “zio”, senza, esserlo?
Ecco, proverei a trasmettere ai miei figli l’idea che parlare bene passi dall’essere in grado di trattenere una parolaccia, come, evolvendoci, siamo riusciti a trattenere sputi, rutti, peti e tutta la serie di bassezze e bestialità che, per cattiva educazione, caratterizzavano e caratterizzano il nostro comportamento in pubblico, negli ultimi 20.000 anni, magari non per amore di conservatorismo, di creazione di inutili campane di vetro intorno a loro, volendoli interpreti di qualche spot del mulino bianco o della casa della prateria. Li vorrei solo consapevoli fino in fondo del fatto che non solo i vulcaniani si rivolgono agli altri vulcaniani senza parolacce e sono in grado di scegliere il frasario in base al destinatario e non in base al fatto che non ne conoscono altri.
Mi auguro davvero che, in un futuro non troppo lontano, nessuno potrà più nascondere la propria incompetenza sociale dietro il turpiloquio, oppure costringere gli altri a essere triviali per riuscire a vederli come “gente come loro”.
Soprattutto, come abbiamo smesso di bere e di fumare, non potremmo almeno sforzarci un pochino e provare a smettere il ridicolo viziaccio di dire parolacce solo perché non abbiamo argomenti migliori?
Non credete che, davvero, ne ricaveremmo tutti una miglior figura?
..Eccheccazzo!
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