Non amo la colonna sonora di Shrek. Mi pare pretestuosa, adatta alle orecchie dei genitori e dei nonni degli spettatori. Nell’affermazione della cultura laicista, poi, il classicismo biblico di Hallelujah, canzone definitivamente associata all’immagine in cui Shrek riscopre il valore dei sentimenti, assegna, casualmente o deliberatamente, una valenza mistica alla celebrazione della vita, contribuendo, nell’inconsapevolezza del pubblico di bambini, a farne un tutt’uno inscindibile. Ciò, anche se non lo fa, dovrebbe stridere.
Devo comunque ammettere che Shrek è una storia davvero controtendenza. Individua la felicità come qualcosa da conquistarsi con ardimento, temerarietà, fede, conservando dignità e amor proprio, senza perdere di vista la propria natura, le proprie strutturali inclinazioni, con la precisa disposizione di perdere tutto, se è il caso. Shrek mostra come sia possibile essere felici senza titoli nobiliari, senza il riconoscimento delle folle, senza ricchezza, col coraggio della coerenza, perché i personaggi incappano in bellezza, ricchezza e nobiltà senza bramarle, aiutando i giovani spettatori a focalizzare obiettivi di più ampio respiro, che hanno in comune tra loro la necessità di estirpare, in questo sta la sfida, tutte le meschinità, siano esse concrete e presenti in un nemico, un antagonista o dentro ognuno di noi.
Non troverete tanta coerenza spesso, nella letteratura degli ultimi tremila anni. Può anche darsi che le finalità che i molti e colti autori del passato cercavano, divergessero da quella che cerco io, che è forse banale, oggi, ma raramente richiesta, allora.
C’è una latente contraddizione nella pretesa democraticità di certe storie, di certi personaggi. Si tramandano le vicende di eroi mitici e si raccontano ai bambini, come fossero esempi di virtù e giustezza, esecrabili scene di empietà, nei classici che citiamo abitualmente, ma anche nelle più celebri e celebrate favole disneyane.
Alcune di quelle vicende sono tanto in contraddizione con il fine che parrebbero prefiggersi, da suscitare, mancando l’obiettivo, imbarazzo e sconcerto. Esse, anziché dimostrare ciò che postulano, predicando l’armonia tra gli uomini, rimarcano senza posa l’inevitabile e immutabile destino dei reietti, l’impossibilità di autodeterminarsi, di riscattarsi, a volte addirittura negando giustizia e, all’evidenza della ragione, oppongono proprio quel destino e le diversità che esso implica, per diritto di nascita, aumentando di fatto quella distanza originale di cui sembravano voler negare la rilevanza.
Verrebbe da pensare che sia proprio così, poiché, con buona pace dei grandi pensatori idealisti e illuministi, antichi e moderni, i vari Hegel, Voltaire, Rousseau, Washington o Marx, sostenere l’uguaglianza tra gli individui, argomentare le pari dignità, opportunità e libertà, non sarebbe che una favola poco realistica, così di frequente disattesa, non solo nella realtà ma, persino, nelle stesse favole tradizionali, da apparire meritevole di ironia.
Alcuni, in barba al politically correct, per cui ognuno avrebbe diritto alla sua opportunità, ai suoi dieci minuti di risalto, l’hanno proprio detto. Sarebbe per loro ovvio che ‘signori si nasca’, che il sangue sia blu, che dio sia morto e che superare l’uomo, inadeguato al progresso, imparando il superuomo, sia una necessità.
Non ci sarebbe niente di male, in fondo, perché la regola, descritta al pari un cardine su cui poggerebbe l’intero meccanismo dell’esistenza, non sembra temere confutazione, né in merito alle condizioni, come il tempo o il luogo, né al riguardo di ogni altra regola di base.
La regola avrebbe a che fare, banalmente, con il saper interpretare al meglio sé stessi, sviluppando il proprio potenziale, le proprie migliori qualità, utilizzando ciò che si è e ciò che si ha come uno strumentista suonerebbe la sua partitura in un’orchestra, persuaso dell’importanza di un’ottica d’insieme, convinto dell’indispensabile apporto di ognuno, soprattutto del proprio, per nulla avvilito dall’apparente maggior prestigio dei violini o dei legni, solo perché più in evidenza; nonostante le 36 battute di attesa, nonostante il controcanto, nonostante i più, tra il pubblico, sembrino apprezzare solo ciò che vedono e sentono distintamente, perdendosi una parte tanto importante dello spettacolo senza averne nessuna consapevolezza. Alcuni potrebbero dolersi del proprio destino, indipendentemente dal proprio status, perché parrebbe loro di avere più chances, in un ruolo differente, forse più congeniale, pur nell’impossibilità di sperimentare quanto congeniale sia. Alcuni potrebbero desiderare di essere nati violino e non fagotto; clarinetto e non timpano. Si tratterebbe comunque di una trasgressione vana e gratuita, dato che nessuno può farci niente e la regola va semplicemente accettata. Ecco, anche uno schiavo che diventi re, un paria bramino, uno scudiero cavaliere e un villano signore, sono e quindi prevalentemente sembrano, trasgressioni inutili, dato che tendono ad aggirare quella regola.
Gli insegnamenti impartiti a chi ne voglia, di lezioni, sono da sempre numerosi. Ora, non vorrei parlare di contraddizione, perché travisare un insegnamento, per quanto si possa dire che il maestro doveva essere più chiaro, è facile e non si può sempre imputare la colpa a chi insegna. Essa è, di frequente, dell’allievo… se uno non capisce, non capisce.
Eppure, la storia della cruna dell’ago parrebbe molto chiara… c’era un tizio molto pio che voleva essere certo di meritare il regno dei cieli, così chiese a Gesù, che gli rispose che, per essere proprio sicuri, si doveva vendere tutti i propri averi e divenire suo discepolo. Poiché il tizio, storcendo il naso, non divenne il tredicesimo discepolo, Gesù disse ai dodici rimasti che “è più facile per un cammello passare dalla cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli”.
Ognuno è assai libero di ascoltare in tutto, in parte o affatto, le dritte comportamentali della lieta novella, con tutto che chi la diffuse, di certo, auspicava che di dritte si trattasse. È innegabile che molti uomini intesero quelle parole come linee guida, il cui rispetto ci avrebbe resi migliori. Pure, si può convenire sul fatto che, prese singolarmente, esse contengano molto di buono, anche se, ma lo dico sapendo di essere un pessimo allievo, ricavare un codice comportamentale dalle parabole è impossibile, trattandosi sovente di parole riportate, estrapolate da contesti diversi, in dialoghi scollegati tra loro, da persone chiaramente coinvolte. Ci sarebbero punti oscuri da chiarire che, ormai, nessuno potrà più chiarire, per cui sarebbe sciocco avventurarsi nella confutazione.
Il problema non sono le fonti, ma gli argini. Le acque scorrono per gravità e arriveranno al mare sapientemente convogliate, irrigando campi e dissetando popoli o travolgendo tutto… o passando inosservate, nella ordinaria noncuranza delle persone.
Ecco, osservare alcuni di quegli argini, lì dove vennero eretti, dona comunque qualche spunto alla nostra osservazione. Ad esempio, un cardine comunemente accolto, di quegli insegnamenti, poggia sul principio per cui i ricchi sarebbero senz’altro esclusi dal regno dei cieli, salva la distinzione tra le ricchezze terrene e quelle divine, che apre qualche spiraglio, e quella tra chi amministri bene le ricchezze e chi no, perché “a chi aveva poco, verrà negato anche quel poco” … Ecco, qui lo spiraglio si fa importante.
Ora, Bill Parrish, il vecchio morente di Joe Black, in paradiso scortato da Brad Pitt, non ci va di sicuro, stando alla prima regola, mentre ci va con diritto di priorità, per l’ultima.
L’eventuale contraddizione, salvo discutere se la nobiltà derivi da attribuzione terrena o divina e quale sia, entro e oltre i confini terreni, la vera nobiltà, non dovrebbe turbare gli animi, se non quelli già turbati e in combutta per chi sia più meritevole, che so, della vita eterna. Chi ha più possibilità di salvezza tra la destra e la sinistra, i sunniti e gli sciiti, i tutsi e gli hutu, i repubblicani e i democratici?
La storia di Re Artù, che compiace i repubblicani, forse dovrebbe offendere i democratici, mentre questi ultimi dovrebbero amare Bella, come ogni eroe ed eroina della letteratura classica, sempre alla ricerca di un ideale di nobiltà più moderno, all’arricchimento della propria cultura, perché Bella legge molto, campione di gentilezza, in antitesi all’arroganza dei paesani, e di interiorità, vincendo preconcetti e pregiudizi, trovando tutto ciò che cerca nella Bestia, brutto e maledetto ma, all’insaputa di Bella, che non l’abbandona quando lo scopre, il più nobile, ricco e bello tra i mortali. La felicità sarebbe concessa per aver amato indipendentemente dall’aspetto esteriore, dalla ricchezza e dal potere, ma il suggello di quella felicità è l’esercizio di quel potere, il godimento di quella ricchezza e la fine di ogni bruttezza. Non c’è grande distanza tra l’ideale di perfezione dei democratici… o degli hutu… e quello dei repubblicani… o degli sciiti… salvo diverso itinerario. Non è questa una contraddizione?
Paradossalmente, il perfezionamento della felicità è sempre la concessione in extremis della gloria terrena lungamente negata, come se la semplicità umana andasse sempre e comunque anestetizzata da un tornaconto che può riconoscere, quindi ben venga la contropartita, per una misera esistenza, di una lussuosa eternità.
Ci sarebbe da ribattere con l’altra parabola, quella dei tre servi cui vennero assegnati denari da amministrare e, uno di loro, che poi venne trattato malissimo, anziché renderli proficui, per paura, scelse di sotterrarli… C’è anche la questione di Cesare e del dargli quello che è di Cesare, mentre a Dio sarà il caso di dare altro.
Lo vediamo nella Bella e la Bestia, ma anche in Cenerentola, premiata con il Principe, in Rapunzel, che ottiene giustizia, essendo alla fine riconosciuta nobile di nascita; in Ralph Spaccatutto dove Vanellope Von Schweetz si vede riconoscere la nobiltà d’animo, che pure avrà avuto, alla rivelazione di quella degli avi, con tanto di genuflessioni alla trasgressiva pilota di auto; in Guerra e Pace, ove tutti i personaggi acquistano rispettabilità e signorilità, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, grazie alla nobiltà della propria famiglia; nei Miserablili, dove la santità e il sacrificio dell’arcivescovo di Digne, di Valjean, di Fantine e di decine di altri reietti, trova contropartita nel marchesato di Pontmercy e nel godimento della ricchezza, accumulata virtuosamente da Valjean, da parte della brava Cosette; in Orgoglio e Pregiudizio, in cui la bella Elizabeth rifugge tutte le convenzioni, salvo adeguarsi e amare perdutamente il più meritevole, il più bello, alto, nobile e, naturalmente, il più ricco scapolo disponibile; nel Re Leone, tornando a bomba sui classici disneyani, in cui il povero Simba, cui Scar fece credere di aver ucciso il padre, oltre a cantare Akuna matata il giorno immediatamente successivo, adempie il suo destino sgominando gli avversari e sposando Nala, sua promessa sposa fin dall’infanzia.
Quello di adempiere un destino scritto, da cui non avrebbe senso sfuggire, in quanto più elevato della nostra volontà, diventa tanto inevitabile che ciò finisce col coincidere con la stessa volontà e, in quel momento, assisteremmo al perfezionamento dell’esistenza. Quello che potrebbe sembrare un adeguarsi, un prendere atto, anziché essere vissuto come un chinar di capo di fronte all’inevitabile, un allinearsi di fato e volontà, dovrebbe confermarci che il destino è compiuto e il dovere non sarebbe un obbligo ma una possibilità, anzi, il modo che ha la nostra volontà di raggiungere il suo scopo, che ne siamo consapevoli o no.
Dovrebbe…
La corrispondenza tra il nostro scopo, individuale o collettivo, con l’obbligo di adempiere un destino, sia esso la conservazione della specie, il rispetto della natura, la procreazione, il bene dell’umanità o l’uncinetto, a me parve sempre solo ipotizzabile.
Il fatto che un uomo, nato uomo, veda il suo perfezionamento con l’essere uomo e non, che so, ape, come un’ape nata ape non desideri mai d’essere altro che un’ape, mi sembra, da sempre, molto più di uno sforzo di creatività. Un certo auto-determinismo ortodosso avanzerebbe perplessità. Io stesso, nei momenti più anarchici del mio agnostismo, dubito, oltre che del resto, che si possa ascrivere tutto a un singolo percorso. Viviamo, sia che lo consideriamo un miracolo, che un dato oggettivo, che una tortura, un attimo unico e irripetibile di eternità. Quello è ciò di cui disponiamo. Ci è data immaginazione, ma non tempo sufficiente a sperimentare altra consapevolezza che quella di noi stessi e di poco altro ci circondi. Ci è dato di passare discutibili testimoni, patrimoni genetici e non, a discendenze che non potremo guidare a lungo. Quell’attimo di eternità è il solo positivo elemento che potremo gestire, perché potrebbe darsi, anche se non abbiamo prove, che non avremo mai più la possibilità di influenzare il percorso dell’universo infinito, alla fine di quest’attimo.
Pure, potrebbe darsi che tutto il nostro potere, il nostro affanno, il nostro disappunto o, d’altra parte, il nostro senso del dovere, la nostra obbedienza, il rispetto del destino che ci viene indicato come percorso preordinato, non possano incidere davvero sulla rotta dell’universo infinito.
Il nostro dovere potrebbe, alla fine, venir schiacciato come noi schiacciamo una zanzara, estrema, irrazionale guastatrice, mentre ci punge, nella sua disperata contestazione della nostra supremazia… o come un temporale allaga il formicaio e l’alveare, nonostante ogni singolo membro che lo compone faccia, da sempre e per sempre, tutto il dovere che gli viene richiesto.
A cascata, che il fatto d’essere uomo, nato in schiavitù, piuttosto che figlio illegittimo di nobile decaduto, piuttosto che borghese o vaishya, debba essere in qualche modo accettato o avversato, che coincida con un destino e che questo sia noto ad alcuni, svelato da dèi o profeti e che, nel rispetto della verità, lo si debba adempiere, poi, nell’economia delle forze astrali in gioco, nel dispendio di energie e date le dimensioni dell’universo, mi parve sempre tanto arbitrario da superare ogni pretesa di buonsenso.
Gesù, figlio di Dio, si fa uomo e accetta di morire a Gerusalemme per adempiere le scritture degli uomini, dato che le scritture degli uomini di Gerusalemme, popolo di Dio, sono la parola di Dio.
Come può non apparire chiaro a tutti che l’esigenza di far coincidere la volontà divina con quella umana e che debba essere la prima a piegarsi alla seconda, affinché gli umani credano, volontà di coincidenza a cui tanto tenne Matteo, ha senso solo dal punto di vista degli uomini di Gerusalemme, che tuttavia non credono neppure ora, ma non per i cinesi, gli indiani, gli Incas e i marziani?
Come fare a non pensare che non era il compimento delle scritture a poter confermare la volontà divina ma, eventualmente, il fatto che fossero completamente disattese?
Le ragioni degli uomini, le previsioni dei profeti, le regole immutabili avrebbero allora mostrato la propria fragilità e l’obsolescenza; qualcuno avrebbe constatato l’inesorabile superamento e l’inattendibilità di molte di quelle parole, lasciando ai posteri la sola certezza che ciò che fu detto allora non dimostrava inequivocabilmente nulla e che non era vero, come non lo è ora, che per sottostare ai poteri costituiti sia obbligatorio sapere che le sacre scritture erano un’invenzione completamente falsa o, per contro, completamente vera.
Tanta saggezza, tanto sapere… solo per evitare che un uomo, nato uomo, pensi di essere una cipolla…
…come Shrek.
Anche in questo, fa eccezione Shrek, per fortuna…
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